Amo ergo sum

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Kintsugi, trova i materiali per riparare le tue ferite con l’oro

Data diretta: 4 Aprile 2023
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Buongiorno,

Il 7 maggio al Teatro Manzoni di Milano il libro Kintsugi diventa uno spettacolo teatrale che sarà un vero e proprio rito iniziatico con tantissimi immaginalisti. Sarà la più grande riunione di immaginalisti che abbiamo mai fatto. Faremo un grande rituale iniziatico collettivo;  ci saranno i taiko i grandi tamburi giapponesi, il flauto giapponese ed io Michelangelo e Dasha metteremo in scena Tomoe e poi faremo il grande rituale collettivo tutti insieme, con i tamburi e con un pizzico di fantascienza, la mia grande passione adolescenziale.

Quindi vi invito a venire il 7 maggio al teatro Manzoni anche se abitate lontano.

Oggi trattiamo quella parte del Kintsugi che riguarda il trovare i materiali per operare la riparazione. Per riparare la tazza di ceramica servono i materiali: la lacca urushi, la polvere d’oro e la colla.

Ovviamente nella riparazione dell’anima questi materiali sono simbolici e, come diceva Hillman, mutuando da Henry Corbin, noi viviamo in un mundus symbolicus, un mondo simbolico. Questo è già il metaverso!

La colla, la lacca urushi e la polvere d’oro sono simboli dei tre grandi ingredienti necessari per la riparazione dell’anima: il piacere, l’entusiasmo e la solitudine.

Come sapete, nel libro racconto in parte la mia storia e in parte la storia di Tomoe come esempi della riparazione delle ferite con l’oro della consapevolezza. In ogni esempio che narro fornisco delle chiavi simboliche.

Racconto anche della malattia che ho avuto, ritenuta molto grave dai medici. Ricordo che la dottoressa a cui mi sono rivolta qui a Lugano mi ha detto: “Preparati!”, dato che pensava che non ce la facessi e io le ho risposto che io sono preparata e pronta ogni giorno della mia vita.

La spiritualità è proprio il grande cammino che unisce i mondi: la vita e la morte, il visibile e l’invisibile, per cui una persona spirituale, un mistico, si prepara ogni giorno, senza bisogno dell’invito di un medico.

Durante la malattia mi sono preparata con maggiore intensità; la malattia è stata un grande aiuto nell’accelerare la preparazione e quindi le sono molto grata. La malattia è stata una delle cose migliori che mi siano capitate in vita, oltre alla nascita dei miei figli.

Avevo il cancro e proprio per questo riuscivo a essere molto più presente e consapevole in ogni momento della mia vita. I monaci buddhisti Theravada chiamano la consapevolezza dell’attimo presente ‘Satipatthana’, il cammino della piena attenzione cosciente.

Ho scoperto che la malattia grave aiuta tantissimo ad intensificare questa capacità di essere consapevoli e la consapevolezza dell’attimo presente è piacere.

Però il piacere lo sperimenti solo se riesci ad essere consapevole di ogni azione, di ogni attimo, senza distrarti.

Se ti metti un po’ di crema di Drago al mattino puoi certo essere consapevole della consistenza della crema, di come viene assorbita, delle sensazioni che provi spalmandotela in viso e si tratta però di una consapevolezza  limitatissima. Ma se sai che stai morendo e che il tuo viso diventerò terra, il darsi la crema acquisisce un valore, un significato enorme e allora la sensazione di piacere che ti dà  toccare il tuo viso, la sensazione di piacere che ti dà la possibilità stessa di avere un viso, di avere delle mani, di sentirti, di toccarti si intensifica enormemente, perché si intensifica l’amore per questo viso, per questa pelle, per queste mani, che sono così evanescenti perché stai morendo. Questo è vero, dato che dal momento in cui sei nato hai iniziato a vivere ma anche a morire. Però se hai una malattia ritenuta grave tutto aumenta di intensità. La vicinanza della morte intensifica tantissimo il senso del piacere della vita, il piacere di ogni singolo respiro. Ogni singolo respiro diventa un atto di consapevolezza che ti gusti fino in fondo.

Quando mi è stata diagnosticata la malattia era ancora giovane e pensavo a tutti i libri che non avevo ancora scritto e avrei potuto scrivere, a tutte le persone che avrei potuto conoscere, ai miei figli che non erano ancora cresciuti, ai cani che ancora avrei potuto avere.

Questo senso della vita che avrei potuto avere davanti e che era un grande forse mi dava un entusiasmo enorme, cioè ero entusiasta di tutto ciò che avrei potuto vivere di questo futuro così incerto. L’incertezza aumenta tantissimo il senso dell’entusiasmo, in greco ‘entheos’ cioè  essere in Dio o avere un Dio dentro si sé.

Quando l’entusiasmo sorgeva in me sentivo di non poter morire, non ancora, non prima di aver portato a termine tutto ciò che doveva essere fatto e che non avevo ancora fatto. La prossimità della morte ti dà una ragione per vivere e quindi di dire alla morte: “Aspetta!”

E’ bellissimo entrare in questo circolo virtuoso nel quale la morte diventa una potente alleata della vita  e comprendo veramente che la morte non è l’antitesi della vita.

Le persone vivono nella mente, che è una lama che separa.
La morte non è l’antitesi della vita, la tecnologia non è l’antitesi della natura. In fondo è prodotta dal cervello umano che, fino a prova contraria, è prodotto dalla natura. Quindi anche la tecnologia è un mito e tutto dipende dall’intenzione che la anima. Animata dall’amore, la tecnologia diventa una cosa stupenda, se invece è mossa  dall’intenzione del controllo e del potere diventa uno strumento demoniaco, ma questo vale per tutto, non solo per la tecnologia.

Durante la malattia mi sono resa conto con grande chiarezza del fatto che la morte non è l’antitesi della vita, anzi è quella presenza costante che serve ad intensificare la vita.

Dobbiamo fare la stessa cosa con la tecnologia, dobbiamo utilizzarla per intensificare la natura e non per contraddirla e questo è fattibile. Chi critica la tecnologia senza averla neppure sperimentata in prima persona pone questa antitesi tra natura e cultura, mentre la natura e la cultura devono essere complici. Proprio come la vita e la morte devono servire a intensificarsi, a potenziarsi a vicenda e non ad essere antagoniste.

Il terzo ingrediente per la riparazione con l’oro è la solitudine; non ho parlato con nessuno della mia malattia e l’ho vissuta in completa solitudine. A quel tempo vivevo a Edimburgo e i miei figli andavano a scuola là. Allora ho chiesto al loro papà e alla mitica Raffaella, che è una Dragon e ci conosciamo da una vita, di stare a Edimburgo con i miei figli e io sono stata qui in Svizzera e ho affrontato tutto questo percorso da sola, ho restituito il toro bianco con l’operazione chirurgica che è stata per me un rituale sacro.

Che cos’è il toro bianco? Mi riferisco alla leggenda di Minosse. Minosse rappresenta l’uomo che vuole il potere e chiede a Poseidone, il Dio, un segno del fatto che può avere il potere. Poseidone gli manda un bellissimo toro bianco che dovrà restituire con un sacrificio rituale. Minosse accetta e umano e divino si stringono la mano in un patto di alleanza.

Quando Minosse riceve il meraviglioso toro bianco rifiuta di restituirlo a Poseidone con un sacrificio rituale e ne vuole fare un bue delle proprie mandrie; da allora gli dei ruggiscono gridando all’uomo: “Restituiscimi il toro bianco!”

Quando facciamo un’operazione chirurgica, quando un pezzo del nostro corpo se ne va e ci rimane una cicatrice, in quel momento possiamo compiere lo straordinario rituale di restituzione del toro bianco; quel pezzettino del nostro corpo che se ne va è il Benedetto Toro Bianco che mettiamo sull’altare sacrificale per restituirlo al Divino. Ovviamente si tratta di un simbolo ma l’ho premesso: viviamo in un mondo simbolico e il nostro corpo è un simbolo, il simbolo dell’amore, del sacrum facere, del darsi.

Così restituiamo il toro bianco e ristabiliamo l’equilibrio primitivo, ristabiliamo l’ordine universale. La malattia è una straordinaria opportunità per fare questo. È chiaro che non bisogna avere paura e nemmeno cercare la malattia. E’ proprio l’istinto della sopravvivenza che rende sacra la morte in natura; se non ci fosse l’istinto di sopravvivenza non ci sarebbe la sacralità del darsi.

Perciò dobbiamo coltivare l’istinto della sopravvivenza e non avere paura della malattia né della morte. In natura esiste l’istinto della sopravvivenza non la paura della morte; la paura della morte riguarda solo il senso dell’io, che è la mente e quindi riguarda solo l’uomo.

Tornando alla storia di Tomoe, la ritroviamo da sola sui monti dove hanno vissuto i suoi antenati e finalmente incontra Oda, il suo temibile avversario di spada, ma anche l’uomo di cui è innamorata follemente. Oda minaccia continuamente la vita di Tomoe e potrebbe ucciderla in ogni momento ed è l’uomo che anche lei vorrebbe uccidere ma allo stesso tempo ne è follemente innamorata. Questo momento del libro è bellissimo perché rimette insieme due opposti: il nemico e l’amante, che  alla fine sono due facce della stessa medaglia.

Qui la narrazione trasmette la chiave dell’unione degli opposti, la chiave suprema importantissima della non dualità, l’essere distinti ma non separati, come la morte e la vita, la tecnologia e la natura.

Tomoe incontra Oda e si abbracciano e nell’abbraccio Tomoe prova piacere perché anche la guerriera samurai invincibile  ha bisogno di lasciarsi andare e lo fa nelle braccia del suo acerrimo nemico che è anche l’uomo che ama.

Ci sono il piacere, la solitudine dei monti e l’entusiasmo perché Tomoe nell’abbraccio sente come potrebbe essere nel futuro una vita con lui, a fare la madre anziché uccidere continuamente i nemici, a nutrire la vita. Finalmente può lasciarsi andare nelle braccia dell’uomo che ama ma prova anche un grande senso di solitudine perché ha perso tutta la sua famiglia e l’uomo che amava. Ecco di nuovo la non dualità!

Sono sicura che, mentre leggi, queste chiavi della non dualità entrano profondamente in te, questa è la magia della narrazione, dello storytelling sciamanico.

Nel capitolo successivo parlo del perché ci innamoriamo di ciò che può ucciderci; accade perché la grande aspirazione che ci portiamo dentro è proprio quella di morire, svanire. Ci innamoriamo di chi può ucciderci perché siamo innamorati del Sacro, di questa possibilità di svanire, sparire, darci. Si tratta della possibilità di arrivare al Nirvana, parola che significa estinzione, superamento della dualità e ritorno all’unione con il Tutto.

Quando l’io si annulla ritroviamo l’unione con il divino e il piacere, l’entusiasmo e la solitudine diventano totali perché, come dicono tutti i mantra spontanei del respiro, ‘So Han’, ‘Hong So’, ‘Hi Fu’, io sono Lui, io sono Quello e sono solo. Sono anche l’altro!

E’ importante comprendere che il piacere non è assenza di dolore ma una percezione del dolore al di là del giudizio mentale. La solitudine è calore psichico, è coltivare il fuoco interiore, il fuoco del Dumo. Magari questo lo approfondiamo in una prossima diretta.

La pratica che vi lascio per questa settimana, oltre a quella che abbiamo fatto ieri, è quella di evocare questi tre grandi spiriti: il piacere, l’entusiasmo e la solitudine. Nei momenti difficili delle tue giornate evoca questi tre grandi spiriti chiamandoli per nome e senti il piacere di essere vivo, di respirare, per quanto ti trovi in un momento difficile. Sei vivo e questo sentire la vita ti dà piacere. Poi prova entusiasmo per tutto quello che hai ancora da vivere, per tutto quello che ancora puoi fare e devi fare e non hai ancora fatto. Poi evoca lo spirito della solitudine, ricordando che sei distinto ma non separato dal tutto.

Poi leggi bene il settimo capitolo che parla della settima legge della riparazione con l’oro, che riguarda gli ingredienti per la riparazione: piacere, entusiasmo e solitudine.

Ti ricordo il grande viaggio in Giappone, dal 3 al 15 luglio, dove potrai sperimentare tutto questo nel luogo in cui il Kintsugi è nato.

Vi abbraccio!

 

 

paola.bertoldi@gmail.com

paola.bertoldi@gmail.com